PRIDE: come una pandemia può cambiare le cose nella forma ma non nella sostanza

Due manifestazioni a confronto, in due nazioni diverse, per capirne l’evoluzione (e l’importanza) in periodo Covid-19

È la notte tra il 27 e il 28 giugno, Greenwich Village a New York, più precisamente Stonewall, 1969. Potrebbero sembrare una data e un luogo normali, invece è proprio qui che il Pride, ma anche il movimento LGBTQI+, sono nati.

Quella notte, la polizia di New York decide di fare irruzione in uno dei più noti locali gay della città, lo Stonewall Inn appunto. L’omosessualità è ancora illegale in 49 degli stati negli USA e fino a due anni prima era vietato servire loro alcolici. Le cose però vanno diversamente.

Pride
Photograph of Marsha P. Johnson and Sylvia Rivera by Rudy Grillo, c. 1989-90. The Rudy Grillo Collection, The LGBT Community Center National History Archive.

Sylvia Rivera e la sua amica Marsha P. Johnson sono le prime a rifiutarsi di sottostare all’ennesimo sopruso. Quella la molla che porta anche tutti gli altri a ribellarsi: una miccia che dà vita a ben 6 giorni di disordini ai quali prendono parte non solo la comunità omosessuale di New York, ma anche comunissimi cittadini. Diventa una rivoluzione collettiva per rivendicare i diritti di tutti.

È davvero uno spartiacque che porta alla nascita dei primi movimenti di liberazione omosessuale, ma soprattutto al vecchio GAY PRIDE, oggi chiamato solo PRIDE per renderlo il più inclusivo possibile. Dal giugno 1970, anno della prima marcia in ricordo dei moti dello Stonewall ad oggi, sono passati 50 anni e da allora ogni 28 giugno celebriamo la giornata dell’orgoglio, ma purtroppo non senza polemiche.

L’omofobia è ancora dilagante, insieme ai discorsi d’odio, anche in Paesi in cui teoricamente i pari diritti sono stati riconosciuti. C’è chi ogni anno mostra il proprio disappunto nei confronti della parata, definita dai detrattori una “carnevalata” piena di eccessi, e il più delle volte queste persone un Pride manco l’hanno mai visto.

Il caso Salonicco (2019)

C’è una frase che racchiude un po’ cosa pensa il greco dell’Italia: “Una faccia, una razza”, l’ho sentita centinaia di volte nel mio anno lì ed effettivamente mica hanno torto.

Nelle cose belle come nelle cose meno belle sono davvero molto simili, infatti anche lì il Pride è stato non privo di polemiche e non solo. I giorni precedenti alla parata non sono stati tranquillissimi per via delle minacce ricevute da gruppi di estrema destra. Anche in Grecia l’intolleranza, purtroppo, continua a farsi strada prepotentemente. Quel Pride, infatti, fu soprattutto in memoria di Zak Kostopolous, famoso attivista per i diritti LGBT, ucciso di botte nemmeno un anno prima ad Atene. Il ricordo della comunità è stato uno dei momenti più emozionanti della giornata. Nonostante questo piccolo velo di tristezza, a discapito di minacce e tutto, c’era una marea di gente in festa, di colori con il mare a fare da cornice.

C’erano genitori con i propri figli, anche piccolissimi, signori anziani che mi chiedevano di essere fotografati, drag queen con vestiti da fare invidia o sorridere (lo scopo è anche quello a volte), ragazzi della comunità lgbt o etero: non c’era alcuna differenza, erano tutti lì sempre con l’unico obiettivo di far vedere che i diritti devono essere di tutti, mica lo sono solo i doveri.
Tutte presenti con un unico comun denominatore: l’orgoglio di essere lì a fare qualcosa che può sembrare nulla, ma che significa tanto. Questi Pride non sono solo occasioni per vestirsi in maniera eccentrica, sono un modo per dare visibilità nella maniera più impattante, per fare rete, per dimostrare che siamo tutti alleati. E di eccessi nemmeno l’ombra, solo qualche detrattore sporadico incontrato lungo la marcia.

Valencia 2020 e il Covid-19

Purtroppo, come in tutto il mondo, Valencia ha visto i piani andare in fumo. Già si pregustava una parata spettacolare, paragonabile a quelle degli anni passati, visto e considerato il contesto forse un po’ più gay friendly del posto. Invece è arrivato il Covid.

Anche senza parate, però, nessuno è rimasto con le mani in mano. L’intolleranza è un problema globale forse più potente anche dello stesso coronavirus, perciò le varie associazioni hanno dovuto intraprendere un cambio di rotta tra webinar, proiezioni collettive da casa, workshop e incontri (tutti rigorosamente online).

La pandemia ha avuto un impatto devastante sulle organizzazioni dei Pride di tutto il mondo con centinaia di marce ed eventi annullati o rinviati e molte di queste hanno deciso di riunirsi nell’evento organizzato dal Global Pride proprio per offrire alla comunità LGBTI + di tutto il mondo la possibilità di riunirsi il 27 giugno e celebrare la diversità e l’uguaglianza durante questi tempi difficili.

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Una bandiera mostrata con orgoglio

Mentre tutti rimanevano in casa, l’odio è stato libero di uscire. I casi di cyberbullismo sono aumentati in modo esponenziale in questi mesi e molti hanno addirittura avuto il “nemico” tra le stesse mura domestiche.

Sono cose che lasciano un po’ di amarezza, è il 2020 e c’è ancora tutta questa discriminazione, questo odio diventati ormai un problema radicato a livello sociale.  La strada da fare è davvero tanta, solo educando al rispetto, all’accettazione delle diversità di ognuno di noi, le cose potranno migliorare.

Per questo era impensabile che un evento così importante, nonostante quell’aura di leggerezza acquisita negli anni, potesse fermarsi. Nessuno deve essere lasciato da solo a combattere le proprie battaglie per dei diritti fondamentali. Ben venga quindi tutto ciò: le manifestazioni, i cortei, i concerti.

In 50 anni, di passi in avanti ce ne sono stati, seppur piccoli. Chissà che prima o poi il Pride non diventerà solo una mera occasione per fare festa, perché finalmente si sarà raggiunto ciò che noi semplici alleati della comunità, richiediamo in questa maniera, ma per cui chi ne fa parte deve combattere invece ogni giorno.

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